Non ci appare forse il corpo come un dato evidente e indiscutibile, insensibile alle modificazioni della storia? Cosa significa allora l'espressione 'invenzione del corpo' posta a inizio di una riflessione sul ruolo giocato dal corpo all'interno della nostra tradizione di pensiero?
Vuole condurci a considerare come il corpo – lungi dall'essere un ente puramente naturale, incontrovertibile nella sua datità e immoto nella sua fissità – si offra sempre e solo in immagini culturali. Il corpo in Occidente si forgia e si costituisce di contro all'anima con cui costituisce una coppia opposizionale, d'origine orfico-pitagorica, destinata ad affermarsi – attraverso Platone prima e il pensiero cristiano poi – come cifra dominante della nostra antropologia filosofica.
Non c'è dunque un 'corpo naturale' e neppure vi è un presunto corpo 'oggettivo' (anche il corpo del discorso scientifico è figlio di una costruzione culturale, di una storia): vi sono piuttosto delle scritture, delle figure del corpo che si succedono. La più potente di tali figure è di certo quella del corpo-organismo.
Le membra disperse dell'uomo acheo
L'uomo acheo di cui parla Omero all'alba della nostra cultura non pare avere alcuna esperienza del corpo come unità, come totalità. Egli appare nell'Iliade disperso in una molteplicità di membra, non unificate in un organismo.
In effetti nell'Iliade, quando si parla del corpo degli eroi, troviamo espressioni quali: gambe veloci, cosce ben fatte, braccia forti, rapidi piedi o, quando si parla del corpo delle donne, si legge: belle caviglie, bella gola, petto amabile, occhi lucenti…
Osserva Bruno Snell che non vi è neppure una parola in Omero in grado di dire il corpo nella sua totalità; il termine soma, che designerà il corpo a partire dal V secolo a.C., nell'Iliade sta a significare "le membra morte", dis-animate. A maggior ragione non c'è traccia alcuna dell'organismo, di quella totalità organica il cui centro di significato diverrà poi l'anima.
Il vissuto 'interiore' di questo uomo senza corpo organico è raccontato attraverso il battito cardiaco (kradie), il cambiamento di ritmo del respiro (phrenes), il serrarsi dello stomaco (etor) sotto la sferza di passioni violente, quali l'ira, l'angoscia, la paura… Non c'è corpo e non c'è anima (a confermare la tesi di un emergere dell'uno insieme all'altra), al posto dell'interiorità si dispiega una disseminazione di forze patiche collocate in differenti luoghi del corpo. Invece del viso, mai nominato come luogo di visibilità dei moti dell'anima, sono i movimenti delle parti disperse del corpo a esibire le passioni.
I visi degli affreschi palaziali micenei mostrano in effetti una fissità che apparenta uomini e animali: le nobili teste effigiate non evidenziano alcun elemento di individualità, sono dipinte con elementi invarianti proprio come i musi dei cani, dei cervi…
Molte tra le raffigurazioni di corpi umani nell'arte micenea mostrano una consonanza profonda ed enigmatica con i corpi dell'Iliade: anche qui si nota una corporeità dispersa che raffigura, osserva Jaynes"(…) l'uomo come un aggregato di membra stranamente costruite, le articolazioni raffigurate in modo inadeguato e il torso quasi separato dai fianchi"(Jaynes, 1984, p. 97). E Bruno Snell osserva come nelle pitture dell'arte arcaica appaia un uomo che è melea cai gyia, ossia membra con forti muscoli, chiaramente separate le une dalle altre e legate insieme da punti di giuntura molto evidenziati (Snell , 1963, p. 27).
Il corpo nella medicina antica
Il corpo pensato entro le pur differenti direttive della techne medica antica (ippocratica o pitagorica o empedoclea) non si discosta granché dal corpo frammentato omerico.
Il corpo è visto dai medici greci come il contenitore di una serie di fluidi, di elementi organici che entrano nel corpo sotto forma d'aria, cibo, umori, riempiendolo, ed escono dal corpo in varie forme d'evacuazione, svuotandolo.
Il soma non è dunque mai pensato, nel quadro concettuale della medicina ippocratica tra V e IV sec. a.C., come un insieme strutturale e funzionale di parti 'organiche'; di esso si conserva una concezione 'debole' e per così dire pluralistica, è il recipiente dove cibi, arie, umori si scontrano e si compongono per dar luogo agli equilibri della salute o agli scompensi della malattia (Vegetti, 1985).
La novità nella medicina antica, rispetto alla tradizione omerica, sarà la ricerca di un dispositivo vitale centrale aldilà della dispersione psicosomatica che porterà alle opposte ipotesi emocentrica – di ascendenza empedoclea – e encefalocentrica – impugnata da Alcmeone in ambiente pitagoreo. Ma anche tale dibattito non porta a una unificazione organica delle funzioni per la quale, osserva Vegetti, evidentemente sarà necessario l'apporto di altre esperienze, di altre pratiche, oltre quella strettamente medica.
Paola Manuli parla di un "modello fluido del corpo" che non permette nella medicina ippocratica di pervenire al concetto di organo. All'interno di tale modello epistemico l'intero funzionamento del corpo è una questione di idrostatica, di equilibrio dei fluidi, di osmosi armonica di essi tra fuori e dentro del corpo
(P. Manuli, 1985).
Essenziali alla comprensione del corpo sono dynameis e schemata: con le prime s'intende la potenza degli umori, la loro capacità di produrre effetti, modificazioni, processi. Con schemata s'intendono le strutture di raccoglimento, aspirazione, versamento, espulsione degli umori che fanno del corpo un grande recipiente le cui parti si differenziano a seconda del trattamento a cui sottopongono i fluidi in entrata e in uscita.
La malattia s'insinua nei processi di riempimento (plerosis) e di svuotamento (kenosis) del corpo nei quali è necessario mantenere una misura che riguarda la quantità, ma anche la qualità, di ciò che è introdotto nel corpo. Il corpo umano è qui considerato come luogo in cui si raccolgono umori molteplici, ognuno con proprietà (dynameis) particolari. Il medico ippocratico è colui che deve con totale fedeltà descrittiva raccogliere i segni empirici dei molteplici incontri che avvengono nel corpo e tra corpo e cosmo.
Platone e la nascita dell'organismo
L'organismo è un'invenzione platonica, in esso il corpo diviene quella totalità chiusa, gerarchica – psicocentrata in Platone e poi encefalocentrata nella successiva tradizione filosofico-scientifica – che è tutt'ora imperante.
Nel Timeo si presenta, per la prima volta nella nostra cultura, l'immagine organica del corpo, laddove si racconta che gli dei posero la molteplicità degli organi che compongono il corpo entro un'unità gerarchica sottoposta al controllo e alla direzione dell'anima razionale collocata nel capo. Da dove trae Platone il modello del corpo/organismo? Non certo dalla medicina a lui coeva; piuttosto, è mia opinione, dalla stessa pratica del discorso logico che serra le parti diverse del discorso sotto l'egida dell'idea definitoria, come Platone spiega nel Fedro paragonando proprio il discorso a un corpo.
Serrare le molteplicità costituenti il corpo nell'organismo assolve eminentemente a due funzioni: la funzione economica perchè l'organismo diviene una totalità in cui le differenti parti si trasformano in 'organi', ognuno finalizzato all'efficienza e produttività dell'intero, e la funzione immunitaria, in quanto l'unità organica si fa chiusura difensiva verso tutto ciò che è 'fuori' e che è visto come negativo, pericoloso, da eliminare.
Tale duplice funzione ci fa comprendere l'efficacia dell'immagine del corpo-organismo come potente metafora della comunità politica in Occidente il cui senso è spesso ridotto a tale doppia valenza: economica e immunitaria.
Oltre il corpo-organismo
L'immagine dominante del corpo per la scienza medica è tutt'oggi sostanzialmente quella organicista del Timeo di Platone. Nel pensiero scientifico a fatica comincia a farsi largo un'idea differente del corpo.
Un esempio recente lo offre la ricerca del neurobiologo Michael D.Gershon che rende conto dell'esistenza di un sistema nervoso enterico in grado di mediare i riflessi in completa assenza di input dal cervello o dal midollo spinale. Solo recentemente questo è oggetto di attenzione scientifica in quanto la ricerca medica è sempre stata orientata da una visione fortemente gerarchica del corpo in cui vige un principio encefalocentrico che dà spazio a un ruolo di comprimario giocato dal cuore e ha da sempre relegato l'intestino in una posizione di totale dipendenza dal cervello che invece non ha.
È interessante come il testo di Gershon usi frequentemente metafore politiche per parlare della sua scoperta di un'autonomia neurologica dell'intestino in modo da legittimare il pensiero di una relazione tra la crisi attuale del modello di stato centralizzato in Occidente e la possibilità della ricerca medica di uscire da un rigido modello encefalocentrico del corpo umano. Parla, ad esempio, di una "balcanizzazione" dello stomaco (Gershon, 2006 ).
Eppure la nostra vivente esperienza insegna che il corpo è un gioco di forze molteplici, difficilmente rinserrabile nell'organismo gerarchico e chiuso. In tal senso il monito spinoziano: "Voi non sapete cosa può il corpo" prende un rilievo particolare alla luce della consapevolezza dell'impossibilità di una conoscenza esaustiva delle forze del corpo. Poche sono state nella nostra tradizione filosofica le voci in contrasto con l'immagine dominante del corpo organismo: Spinoza, Goethe, Nietzsche; più numerose nel tardo Novecento, a partire da Deleuze e Foucault per i quali il corpo è una pluralità d'istanze, a volte in contrasto tra loro.
Nell'arte contemporanea troviamo invece diffusa una acuta sensibilità per la complessa e polimorfa realtà del corpo che, come dice il poeta Antonin Artaud: "è una moltitudine impazzita, una specie di baule a soffietto che non può mai aver finito di rivelare quello che racchiude". Tra i pittori del tardo Novecento basti menzionare Francis Bacon (molto amato da Deleuze) che dedica buona parte della sua produzione a disfare il volto, a condurre i tratti umani verso derive animali, verso una zona d'indecidibilità tra uomo e animale, a tendere o contrarre i muscoli in un atletismo del corpo, in una acrobazia della carne che evidenzia ritmici spasmi, sforzi eccessivi, tensioni smodate, nel tentativo di condurre ben al di là del corpo chiuso, serrato dall'organismo e di rendere visibili nella pittura quelle forze espresse dal corpo che non si lasciano riportare alle funzioni codificate e gerarchizzate degli organi.
*Docente di filosofia ai licei e all'Università Statale di Milano, ora lavora all'Università di Bergamo. Tra i lavori pubblicati: Il secolo della conoscenza, Guerini, Milano 2001, Felicità e bene comune, Mimesis, Milano 2004 e L'invenzione del corpo, Negretto, Mantova 2010.
Pubblicato il 27/9/2010
(Cristina Zaltieri su Treccani.it)